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Stefano Zangrando (SZ): Permettimi di partire dal tuo personaggio finora più noto. In Lingua madre, a un certo punto Paolo Prescher reagisce a un’autocritica della madre che, parlandosi un po’ addosso, aveva definito «tedesco» il compagno di classe Jan Einstatt invece di usare l’espressione «sudtirolese di lingua tedesca». Cito Paolo: «Io dico tedesco e lo faccio apposta e lei si arrabbia e allora dico anche negro e lei si arrabbia ancora di più». La madre gli tira uno schiaffone e lui: «stronza, è un cazzo di latinismo, stronza, è un cazzo di latinismo. […] Non è vero che le parolacce sono sporche, dipende. Le parole sono tendenzialmente pulite se dicono quello che devono dire senza fare la doppia faccia, come negro e tedesco.
Negro e tedesco sono più pulite di persona di colore e sudtirolese di madrelingua tedesca». Ecco, questo è il punto di vista di Paolo Prescher, che odia le parole sporche e vorrebbe un linguaggio senza ambiguità né ipocrisia. Ma soprattutto è un personaggio letterario, che tu hai creato e accompagnato fino alle estreme conseguenze della sua “glossopatia”. Vorrei dunque partire da qui: sei d’accordo nel presupporre che in letteratura sia inammissibile operare sul linguaggio una qualsiasi (auto)censura, anche se il punto di vista di un personaggio, il suo contesto o una determinata estetica testuale si discostano o persino contraddicono l’uso che delle stesse parole faremmo noi come persone in carne e ossa? E già che ci siamo: se un attimo fa io avessi voluto scrivere “noi come cittadin…”, avresti preferito cittadine/i, cittadin* o cittadinə? E perché?
Maddalena Fingerle (MF): Quando scrivo non mi pongo il problema dell’(auto)censura: in un lavoro mimetico seguo il pensiero del personaggio e cerco un linguaggio che gli sia fedele. Non c’è spazio per dire “io però non direi mai la parola negro” perché non sono io, ma Paolo a parlare. Il linguaggio a cui aspira lui è un’illusione, ma mentre scrivo indosso le sue vesti e non posso giudicarlo. La provocazione, o l’esasperazione del suo pensiero ossessivo, è funzionale al romanzo. Poi è chiaro che io Maddalena non direi mai «negro» e non condivido le posizioni di Paolo perché c’è un grande cortocircuito nel suo pensiero: se le parole possono escludere, innervosire o ferire, io faccio di tutto affinché non lo facciano. Su una cosa sono però d’accordo con lui: ha senso se ci si crede per davvero. In generale apprezzo gli sforzi per l’utilizzo di un linguaggio ampio dal punto di vista del genere, che sia lo shwa, l’asterico o altro non ha importanza. Tra quelle che proponi l’unica che non userei è cittadine/i perché dimentica (o esclude) tutto ciò che non è dicotomicamente femminile o maschile.
In tedesco utilizzo, nel parlato e nello scritto, forme come Autor_innen, ma in italiano faccio più fatica perché non ho l’impressione che ci sia una forma accettata. D’altro canto all’incontro con l’autore si presenta improvvisamente un’autrice e mi capita spesso di vedere un’espressione infastidita quando chiedo di usare la forma femminile se riferita a me. Quello che più mi fa sorridere, nelle resistenze che trovo quando per esempio scrivo su WhatsApp “tuttǝ” è che “è cacofonico”, come se improvvisamente ci fosse un’attenzione per una presunta bellezza acustica del linguaggio (basterebbe leggere il resto della conversazione per capire che è un problema tutto nuovo). Oppure “fa strano”, magari di parole che si utilizzano già in altri contesti. I primi mesi di matrimonio mi faceva strano dire “mio marito” (e suppongo succeda qualcosa di analogo a molte persone in diverse occasioni) eppure mi sono abituata; in tedesco da circa un anno faccio una breve pausa dopo Autor e innen e non mi sembra di perdere chissà quanto tempo. Vera Gheno si occupa anche di questo, e i suoi studi sono illuminanti. Tu, invece, quale forma preferisci?
SZ: Non ho una preferenza assoluta, sono malleabile e mi viene naturale adattarmi al contesto: se dialogo all’interno della SAAV, ad esempio, o intervengo pubblicamente in tedesco dico anch’io Autor_innen, come te; se sto facendo una lezione in classe o una riunione con colleghe e colleghi dico “alunne e alunni” o appunto “colleghe e colleghi”; in altri casi, se prima di me un’interlocutrice usa un plurale soltanto maschile, faccio lo stesso anch’io, se invece sono il primo a parlare, uso prima la forma femminile (non senza il timore, di questi tempi, di essere accusato di cavalleria, quindi di maschilismo o almeno di abitudini retrive); mi adatto ancor più volentieri se sto dialogando con una persona non binaria; se invece c’è abbastanza confidenza e la maggioranza degli interlocutori è femminile, a volte uso solo il femminile, e viceversa se la maggioranza è maschile. E sai perché lo faccio?
Perché, non sembrandomi che il linguaggio possa diventare compiutamente inclusivo, men che meno per le identità non binarie (come ti ho appena mostrato con i miei esempi), trovo che ognuno di noi debba accettare di poter essere escluso dalle desinenze – ho usato il maschile, come vedi – in base a una convenzione condivisa e compensata da condotte extra-linguistiche, civili e quotidiane, il più inclusive possibile. E anche perché credo che l’imperativo dell’inclusività non proceda sempre da un intento nobile come il tuo – quello cioè di obliterare dal linguaggio la violenza e i meccanismi di potere, rendendolo più egualitario e plurale –, ma venga spesso da un gruppo sociale privilegiato con tendenze a) all’esclusione intollerante di chi non si conforma al linguaggio inclusivo e b) alla presunzione di essere nel giusto, che per me è poco meno di una declinazione del male assoluto. Quanto allo shwa, non trovo affatto sia cacofonico in sé, fin da bambino mi interrogavo su questo fonema e amavo vocalizzarlo, restandoci appeso con un piacere fisico e mentale a un tempo. Nel dibattito odierno lo associo però soltanto alla forma scritta, dove in effetti lo vivo anch’io come un inciampo grafico nell’economia della parola e della frase, nella loro musica che mi risuona in mente: mi mancano le connessioni sinaptiche per farmelo scorrere dentro come qualsiasi altro grafema.
Ma sono malleabile, te l’ho detto: quando noterò un cambiamento ti informo, d’accordo? Se però intanto mi consenti di tornare al nucleo problematico della questione: trovo che il progressismo di matrice accademica, lo stesso che qui ci induce sensatamente a discutere di inclusività linguistica, mostri segni di preoccupante ottusità quando mette al bando opere artistiche o intellettuali nel mero nome di un ideologismo bieco, pari a quello di marca conservatrice, e soprattutto trascurando le basi materiali su cui poggia questo dibattito, che sono quelle di una società liberale fondata sulle disuguaglianze economiche e sull’erosione ormai pluridecennale dei diritti di chi lavora, quindi su meccanismi di dominio e prevaricazione funzionali all’esercizio del potere da parte di queste stesse élite. Insomma, mi pare sia in atto un conflitto ideologico in cui le disparità materiali non sono però affatto messe in discussione e dove non c’è spazio per una visione autenticamente egualitaria – e noi siamo qui a parlare di shwa. Secondo te mi sbaglio, o tu come la vedi?
MF: Con gli esempi mi hai dimostrato che non ti sembra possibile un linguaggio compiutamente inclusivo? O che secondo te non è possibile un linguaggio compiutamente inclusivo? Cioè mi hai dimostrato una tua sensazione, una tua opinione? Ma soprattutto: dici che dialogando con una persona non binaria ti adatti volentieri, ma come fai a sapere se una persona non è binaria? E perché in tedesco scegli la variante più inclusiva rispetto al genere e in italiano no? L’ideologia è qualcosa che mi spaventa, in qualunque direzione si muova. Ma permettimi un’altra domanda: che cosa intendi, concretamente, con progressismo di matrice accademica? E noi parliamo di shwa come parliamo di Dante, Marino o l’articolo di giornale: perché lavoriamo con il linguaggio, perché ci interroghiamo sul suo funzionamento, perché ci interessa capire se, come e perché funziona o non funziona.
SZ: Certo che è per questo, ma temo che chi non ha una laurea o un lavoro e/o fatica ad arrivare a fine mese non troverebbe la questione altrettanto importante – eppure si tratta di linguaggio, di comunicazione. Ripercorro le tue domande a ritroso: per progressismo di matrice accademica intendo quello che viene coltivato nelle aule universitarie, dove l’esercizio del potere è il presupposto di ogni altra attività che vi si svolge, e da lì si diffonde, ma senza arrivare a parlare alle persone meno alfabetizzate e più oppresse come invece faceva la cultura di sinistra nel secolo scorso. La lingua tedesca dispone di forme più inclusive di quella italiana, pensa solo alle desinenze ageneriche dei verbi – ma anche nel parlato, mi sembra, o come tradurresti Autor_innen con la pausetta in mezzo? Nei contesti scritti italiani uso invece per lo più l’asterisco. Hai ragione, non sempre posso sapere se una persona non è binaria, non certo se non c’è intimità: rimane l’opzione della duttilità, per cui seguo il principio dell’ascolto che ti ho descritto in precedenza, nonostante la mia personale sensazione – e vengo alla prima cosa che mi hai chiesto – che la lingua da sola, almeno per come mi si offre attualmente, non abbia le risorse per un’inclusività compiuta. Credo tuttavia che valga la pena mantenersi aperti al nuovo e al cambiamento, che poi è tutt’uno con il carattere vivo e in perenne mutazione del linguaggio. Un esempio che ho sentito di recente: che ne pensi del termine «neurodiversità»?
MF: Intanto devo dire una cosa a cui penso da quando abbiamo iniziato e che sembra fuori contesto, ma è legata all’ambiguità del linguaggio, volendo: ogni volta che leggo le tue iniziali, SZ, penso alla Süddeutsche Zeitung. Ecco, scusa, ora possiamo continuare. Pensavo avessi un modello di riferimento più concreto, per quello chiedevo. Io non me la sento di generalizzare sulle aule universitarie, posso però parlarti di quella che conosco io, a Monaco. E non posso dire che l’esercizio del potere è il presupposto di ogni altra attività, mentirei se lo dicessi. Sono consapevole che non sia sempre e ovunque così, ma mi limito a parlare di ciò che conosco perché altrimenti finirei nel sentito dire e nel pregiudizio. Forse è vero che ciò che si fa all’università non arriva a chi non ha studiato o a chi non ha un lavoro, ma dipende tanto anche dalle persone e dalle tematiche. Ti faccio un esempio concreto: nel progetto dell’SFB 1369 Vigilanzkulturen dell’Università di Monaco, di cui faccio parte, indaghiamo le sfumature del concetto di vigilanza da diverse prospettive e a partire da discipline differenti. Questo lavoro non arriva a mio suocero, che fa il meccanico, ma lo rispetta, così come io rispetto il suo – se poi dovessi capire il funzionamento di un motore chiederei a lui. Per rovesciare la prospettiva: mi è anche capitato (non poche volte, a dire il vero) di sentirmi dire, in ambienti in cui aver studiato è visto come una perdita di tempo di chi non sa cosa fare nella vita, che dovrei trovarmi un lavoro vero. Questo per dire che serve rispetto reciproco.
Tendenzialmente credo che le questioni legate al genere possano interessare e/o arrivare anche a persone che non hanno una laurea o un lavoro. Dico tendenzialmente perché non è detto, come non è detto che possano interessare persone che hanno una laurea o un lavoro (accoppiata che, tra l’altro, mi fa un po’ sorridere). Ma tu non parli di interesse, parli di importanza. Sono d’accordo che abbiamo il privilegio di parlare di argomenti che possiamo sentire come importanti, ma non lo sento come un motivo per obliterare questi argomenti come poco importanti. Parlarne e rifletterci non toglie nulla ad altri argomenti e attraverso il linguaggio si esprime un modo di pensare. Autor_innen non so come tradurlo in italiano, altrimenti userei la traduzione con grande convinzione, ma non ho trovato una soluzione, come ti dicevo. Per quanto riguarda il termine «neurodiversità» mi permetto di rimandare a chi ne sa più di me, come per esempio Fabrizio Acanfora che fa un lavoro scientifico e al tempo stesso divulgativo e molto chiaro sul tema, di cui riporto un passaggio preso da un articolo del suo blog, che invito davvero a leggere: «neurodiversità non è sinonimo di autismo, o dislessia o disprassia. Secondo la sociologa e attivista autistica Judy Singer, che ha creato questa definizione (e che ha spiegato chiaramente le sue intenzioni in molti articoli e interviste) la neurodiversità è la variazione naturale delle caratteristiche tra un cervello e l’altro, tra tutti i cervelli e i sistemi nervosi, autistici e non autistici, neurotipici e neurodivergenti. Ogni essere umano appartiene alla infinita categoria della neurodiversità».
Questi sono i motivi per cui non ho mai considerato un mio personaggio come «malato» o «disturbato», non ho mai voluto etichettarlo o fargli una diagnosi.
Io su questi temi ci vado in punta di piedi perché mi intristisce da morire quando leggo testi che trattano esplicitamente di disturbi vari senza che ci siano uno studio e una conoscenza dietro. Me ne accorgo soprattutto con un argomento che studio da anni – il disturbo ossessivo-compulsivo – di cui in un racconto ho letto per esempio essere una “malattia”, per dire. E spesso c’è un’estetizzazione che trovo ingiustificata e pure un po’ scorretta, una divisione tra ciò che è sano e ciò che è malato a opera di chi pensa di essere dalla parte delle persone sane. Questi sono i motivi per cui non ho mai considerato un mio personaggio come «malato» o «disturbato», non ho mai voluto etichettarlo o fargli una diagnosi: intanto perché non sono competente per fare alcuna diagnosi e poi perché mi allontanerebbe dal personaggio stesso e dalla sua voce. Torniamo così al tema del giudizio: lo giudicherei. Valentino Liberto ha detto una cosa molto intelligente su questo, secondo me: notava una tendenza a etichettare come «malato» o «pazzo» un personaggio sentito come «strano» per paura di riconoscersi o ritrovarci tratti di persone conosciute. E proprio per questo è importante che ci siano persone competenti e preparate a parlarne. E tu come ti comporti, nella scrittura, con questi temi?
SZ: Prima di risponderti vorrei precisare che a) anche a me le mie iniziali fanno sempre venire in mente la Süddeutsche Zeitung, b) la mia affermazione sull’università è basata su esperienze e conoscenze personali, ma riconosco che generalizzare è una sospensione dell’intelligenza e c) se lamento una mancanza di accessibilità diffusa al discorso cui stiamo contribuendo, è perché sento il bisogno di un intervento capillare sul linguaggio, oltre che generalmente culturale. Mi è capitato, ad esempio, di incontrare alcuni vecchi conoscenti cis ed etero e di non condividere affatto il loro modo di parlare di donne (per non dire di una certa omofobia), benché fosse il modo in cui anch’io da adolescente fui allevato tra i pari. Ecco, un giorno mi piacerebbe poter uscire con amici vecchi e nuovi senza dovermi sentire un alieno solo perché non mi viene da fare commenti triviali sui petti delle cameriere o perché aspetto fremente di marciare con mia suocera alla prossima parata del Pride.
Detto questo, grazie del chiarimento che proponi. Concorderei su tutto, non fosse per un particolare: ho sentito usare questo termine a proposito del protagonista di un romanzo che ho letto, e a definirlo «neurodiverso» è stato il suo autore. Il fatto è che il suo non è esattamente un personaggio «neurodiverso» nell’accezione più diffusa – posto che appunto anch’io preferisco una connotazione francesizzante del termine diversità, che indichi cioè varietà – bensì quello che in linguaggio popolare si chiama il matto del villaggio. E anche lì, come nel tuo Lingua madre, le peculiarità mentali o cognitive del personaggio non sono un tema dell’opera, ma uno strumento funzionale alle specificità della voce narrante e alla modulazione della vicenda. So che anche per te è importante che di Paolo Prescher non si prendano i tratti ossessivo-compulsivi come qualcosa di rilevante sul piano della verosimiglianza clinica e narrativa, e ci ho pure tenuto a illustrare questa non-rilevanza in una recensione che conosci. Ma fuori dal tuo e da quell’altro romanzo, o da altre bellissime opere con caratteristiche analoghe (come La macchina mondiale di Volponi), c’è tutta una letteratura che fa delle diversità psichiche più o meno patologiche l’oggetto di una scrittura impegnata, quella che pretende, come si diceva qualche anno fa, di “dare voce a chi non ne ha”. Mentre questo stesso approccio éngagé ha favorito operazioni culturali in cui vari tipi di minoranze, a partire da quelle di colore o post-coloniali o migranti o di genere, si sono espresse da sé, com’è più giusto.
Si tratta soprattutto di tensioni fra una cultura ritenuta «dominante» e una «di minoranza».
Il problema è che oggigiorno un certo discorso liberal-progressista sulle arti e sulla letteratura, sempre di provenienza statunitense, ritiene deprecabile appropriarsi di prospettive sul mondo che non siano quelle della cultura cui si appartiene. Si tratta soprattutto di tensioni fra una cultura ritenuta «dominante» e una «di minoranza», è vero. Di questo passo mi chiedo però per quanto uno con le mie caratteristiche, cioè maschio, bianco, etero e neurotipico potrà ancora sentirsi in diritto di far parlare in una sua opera letteraria un personaggio di colore, o un profugo, o uno psicotico, o un trans – o anche solo una donna – senza temere di vedersi criticato o addirittura censurato per cotanto abuso. Sto esagerando, ovviamente, o almeno spero, ma è per dirti come vivo l’aria che tira. E lo chiedo a te, che hai quasi vent’anni meno di me e una promettente carriera davanti: che percezione hai di queste tendenze e come ti ci rapporti?
MF: Oddio, io faccio fatica a usare la mia, di voce, figurati a dare voce a chi non ne ha! E chi sono io, chi siamo noi, per dare voce a qualcun altro? Significherebbe mettersi su un piedistallo. Credo che qualsiasi persona possa entrare nell’ottica di un personaggio diverso da sé, a patto però che si informi e che conosca quello di cui parla, che lo capisca. E che sia abbastanza abile da far credere alla finzione o a giocare così bene con la contraddizione evidente che paradossalmente non si sente nemmeno l’attrito. L’abuso avviene, credo, quando manca il rispetto e la comprensione, quando per esempio si scrive il libro sulla donna trans o sul ragazzo di colore, quando il tema diventa più importante della storia o del personaggio. A me dispiace sinceramente che tu viva così quest’aria, che io sento invece un’atmosfera di riflessione. Mi dispiace quando sento stanchezza e insofferenza rispetto a temi come l’inclusione o la correttezza e mi dispiace che ci si possa addirittura sentire una minaccia, una limitazione della propria libertà, perché il senso dovrebbe essere proprio il contrario.
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